Il numero dei morti per atti terroristici nel mondo è aumentato dai 3.329 del 2000 ai 32.685 nel 2014. Il dato, di questi giorni, è dell’Institute for Economics and Peace. La maggioranza delle vittime—il 78%—è stata uccisa “a casa”, in uno dei cinque paesi dove il fenomeno è maggiormente presente: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria. Tuttavia, 93 paesi hanno subito almeno un’azione terroristica nel 2014.
La semplice repressione non si è finora rivelata efficace nel combattere la piaga. C’è in corso una grande attività di ricerca per tentare di identificare le sue cause, per potere proporre soluzioni capaci di sterilizzare il terrorismo alla fonte. Per motivi più culturali che strettamente politici, non è considerato elegante ricamare troppo sull’evidente nesso islamico che unisce molti di questi eventi—e comunque, visto che l’Islam è con noi già da quasi 1.400 anni, non offrirebbe certo una spiegazione sufficiente del perché la guerra di fede prende questa forma proprio ora. Molte speranze accademiche sono riposte nella ricerca di una spiegazione economica.
L’economista “anti-capitalista” Thomas Piketty ha recentemente illustrato su Le Monde la sua ipotesi che la furia omicida dei terroristi nasca dalla diseguaglianza economica nei paesi dove sono più attivi—una circostanza che per lui dipenderebbe dalla disponibilità dell’Occidente ad acquistare il petrolio dalle élites che governano queste nazioni. Il legame tra crescita economica e terrorismo è comunque ancora da dimostrare in via definitiva. Alcuni ricercatori trovano una correlazione positiva tra i due, altri una negativa, altri ancora non identificano un’associazione in un senso o l’altro.
Un ultimo e particolarmente autorevole studio sull’argomento—Economic growth and terrorism: domestic, international, and suicide—è uscito da poco sull'Oxford International Papers. L’autore, Seung-Whan Choi della University of Illinois, Chicago, ha incrociato dati statistici relativi allo sviluppo economico di 127 paesi nel periodo 1970-2007 con quelli sull’incidenza del terrorismo e con molti altri fattori, come la distribuzione del reddito, lo stato della democrazia e la crescita demografica. In estrema sintesi, la ricerca di Whan Choi (il nome è coreano) indica che lo sviluppo industriale si associa a livelli più bassi di terrorismo. Scrive che, secondo i suoi dati: “Se la crescita industriale sale dell’1%, l’incidenza del terrorismo domestico scende dell’1%, tenendo costanti le altre variabili”. Anche il terrorismo internazionale cala di un punto. La crescita agricola è invece ininfluente.
Ma, ed è un “ma” molto interessante, il quadro cambia nel caso degli attentati suicidi. Secondo lo studioso, in presenza di una crescita industriale dell’1%: “Lo spostamento relativo rispetto al numero atteso di attacchi terroristici suicidi cresce del 2%”, ferme le altre variabili del modello.
Il risultato è coerente con la teoria degli “hard targets”: cioè, che come gli stati si arricchiscono e diventano più capaci di proteggere i loro ‘bersagli’, allora gli attacchi suicidi—molto difficili da prevenire —diventano più frequenti. Whan Choi ne deriva che lo sviluppo non sia il toccasana universale per fermare il terrorismo. In certe condizioni potrebbe perfino portare a episodi ancora peggiori.
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