Mi ero ripromesso di non affrontare più temi drammatici per qualche anno. Il documentario sulla strage di Beslan finito nel 2006 aveva segnato il mio passaggio dall' adolescenza all'età adulta. Avevo cominciato a capire quanto schifo fa il mondo e che, vuoi o non vuoi, prima o poi te ne devi accorgere.
Pioveva quella sera di gennaio. Martino mi aveva invitato a prendere un aperitivo per parlare di un lavoro, anzi di un "lavoro nostro". Sapevo già il significato di quella frase. "Un lavoro nostro" è un lavoro che si fa indipendentemente, senza committente, senza soldi, perchè ti è venuta un'idea. È un lavoro che cominci perchè hai dato una testata al muro scivolando sulla porcellana del cesso mentre cercavi di riparare lo sciacquone, perchè ti ha colpito un fulmine o perchè semplicemente hai letto una storia e scalpiti per raccontarla a parole e immagini tue. Per quanto siano fuori dal comune, tutte e tre le possibilità sono l'unica cosa che mi viene in mente per far sì che a una o più persone possa venir voglia di iniziare un percorso tanto difficile e tortuoso.
Per fortuna o per disgrazia, scivoloni e fulmini a parte, questo gettarsi a capofitto in "lavori nostri" sembra essere qualcosa che fa parte del nostro stesso essere. Spesso diventa l'unico motivo per cui ti alzi la mattina. È qualcosa che ti tiene sveglio la notte e che ti riempie il sangue di serotonina quando le cose cominciano ad andare come vorresti. Poche volte in realtà. Ma spesso bisogna fare un salto bendati, senza vedere se dall'altra parte c'è ancora terra. Come quella sera.
Arrivammo al bar e nel giro di pochi minuti eravamo seduti l'uno davanti all'altro. La città rotolava davanti alle vetrine del locale con la solita inutile routine. Dentro invece, una calma irreale.
"Ti faccio una proposta" disse Martino posando il suo drink sul tavolino e incrociando le braccia come fa sempre, prima di esporre una cosa importante. Ero pronto. Cominciò a spiegarmi il progetto. Parlò di un CPT in cui erano morti sei uomini. Un incendio, tanto per cambiare. Il tutto era avvenuto a Trapani, CPT Serraino Vulpitta, la notte tra il ventotto e il ventinove dicembre 1999. Mi parlò di un processo civile ancora aperto e di uno penale che si era concluso con l'assoluzione del potenziale responsabile.
Inevitabilmente ripercorrevo a memoria la strage di Beslan, tanto simile eppure tanto lontana, nello spazio e nel tempo. Era proprio quello che temevo: costringermi a tenere gli occhi aperti dopo qualche mese di sonnolente normalità. Era come se temessi di dover ricominciare a guardare lo schifo del mondo da vicino. Mi dava la nausea questo mio timore. Non pensavo mi avrebbe mai sfiorato, invece stavolta era giunto a bruciapelo e mi aveva colpito come un treno in corsa. Stavo diventando instabile e smisi di pensare, focalizzandomi sulle parole del mio interlocutore.
"Lo faccio se mi aiuti, se puoi" concluse Martino. Ero rimasto in silenzio, e attendevo di sorprendermi da solo nell'accettare la proposta. "Ok, lo facciamo". Non avrei mai potuto rifiutare. Bisognava raccontare quella storia. Tutto qua. Sai bene che quello che hai davanti comporterà un sacrificio, che probabilmente non avrai mai nulla in cambio a livello economico, o addirittura nessun riconoscimento o applauso, ma è di quello che è fatta la tua vita. Arrivi persino al punto in cui fai confusione tra "il lavoro" e quello che fai senza nulla in cambio. Ti chiedi se sia una sorta di volontariato. In realtà, economicamente remi addirittura contro i tuoi interessi. E allora? L'unica risposta che mi so dare è che ciò che sembra fine a se stesso e assolutamente velleitario può nascondere la possibilità di una grande crescita. Questo non ha prezzo e va oltre ogni dubbio.
Martino fu contento del mio sì. Era importante incoraggiarlo nel suo progetto, anche perchè la minima parola di supporto può essere incredibilmente potente quando sei ancora solo con le tue idee e nulla di più. Avevo il compito di fare le riprese e montare il film, un ruolo secondario alla regia, ma non aveva importanza. Sapevo che partecipare alle riprese de Vulpitta Residence sarebbe stato formativo.
Ci fu un evento in particolare che mi convinse di aver fatto il passo giusto. Una delle prime interviste fu girata a Modena. Soggetto: Amin, uno dei superstiti di quella notte tragica. Arrivammo nel tardo pomeriggio. L'aria era fredda e pungente, gli alberi, al bordo dei vasti campi di granoturco, emergevano come capillari anneriti dalla fitta nebbia. Ci venne a prendere un ragazzone alto e forte, di bell'aspetto. Era il nostro uomo. Si dimostrò subito cortese e disponibile, con la consapevolezza che da lì a poco avrebbe dovuto raccontare l'episodio più drammatico della sua vita.
Entrati in casa ci accolse una bambina che si lanciò tra le sue braccia. "Questa è mia figlia, io e mia moglie ne siamo contenti, è stato un dono un po' inaspettato, ma evidentemente Dio ha voluto che andasse in questo modo". Ogni passo che Amin muoveva in casa sua sapeva di orgoglio e comunicava grande serenità. L’abitazione era piuttosto grande, arredata con semplicità, senza sfarzo, con alcune icone e caratteri arabi un po' ovunque e qualche foto di famiglia appesa ai muri.
Con lui viveva da poco anche il fratello, giunto dalla Tunisia per trovare lavoro. Amin era il primo della famiglia che era riuscito a stabilirsi in Italia. Come è facile immaginare, il Magreb non ha molto da offrire a un giovane volenteroso. Lui era più che determinato sin dall'adolescenza a cambiare aria ed è uno dei "prescelti" che ci è riuscito. Amin non voleva che sua figlia ascoltasse quella storia perchè, disse quasi scusandosi, "Mi capita spesso di mettermi a piangere quando la racconto". Ancora una volta, come in quel bar poche settimane prima, l'atmosfera mutò in surreale. Chiusi la porta del salone e calò il silenzio, interrotto solo dal sibilo sottile, ma inevitabile, delle testine della telecamera in registrazione.
Martino sapeva già come far uscire da quell'uomo le parole giuste. Fare un'intervista a un sopravvissuto equivale a fare un'autopsia a un vivo. Gli entri nelle viscere, cercando i serbatoi delle parole, che sono colmi da anni e che gli provocano dolore. Se non sei più che delicato, ma al contempo deciso, rischi di distruggere chi hai davanti. Ti assumi una forte responsabilità. La cosa migliore, mi hanno sempre detto, è ascoltare. Mostra che soffri con loro e non per loro. Impara anche a difenderti, e preparati bene perchè soffrire di riflesso fa quasi più male della sofferenza stessa. Raccontare non è cosa facile. Alcuni lo fanno per stare meglio. È un ragionare a voce alta, costruire tassello dopo tassello le proprie ragioni, anche se non c'è mai una guarigione completa da certe esperienze.
Il fuoco ha marchiato i corpi di questi uomini scrivendone la storia in modo indelebile, sulla pelle e, come il veleno, tra le gocce del sangue. Lo capivo guardando dal mirino della telecamera lo sguardo di Amin. Se un uomo così grande e fiero è riuscito a tirarsi via dall'inferno per tante volte, dovrebbe sentirsi invulnerabile ormai, invece era lì davanti a me che guarda il pavimento con la voce rotta dal pianto. Ritornava bambino ogni volta che diceva "Vulpitta", era come se singhiozzasse per le percosse dei compagni dell'asilo. Diventava estremamente dolce, poi nuovamente severo e vigile. Era una continua metamorfosi nei suoi sguardi: bambino, vecchio, uomo. Indimenticabile.
Il suo racconto non può lasciare indifferenti. "Salii su quella barca mezza allagata, con i bulloni del motore sparsi per tutto lo scafo…in inverno. Il mare era gonfio ed eravamo tantissimi a bordo. Fu un viaggio lunghissimo. Dopo essere sbarcati in Sicilia ci portarono prima ad Agrigento e poi a Trapani al CPT Vulpitta. Era un ex ospizio adattato a centro di accoglienza. Ma in pochi giorni capimmo che eravamo prigionieri e che non aspettavamo altro che essere rimpatriati. Mangiavamo tutti i giorni pasta e pomodoro e vivevamo in condizioni igieniche pessime. Io posso certificare che durante la permanenza nel CPT ho contratto la scabbia e ho avuto i pidocchi. Scoppiavano rivolte in continuazione, nessuno voleva tornare a casa dopo quel viaggio! Un giorno alcuni di noi smontarono un termosifone e riuscirono a trovare una via di fuga dal buco nel muro. Ci calammo usando delle lenzuola legate tra loro, ma l’ultimo della fila cadde rovinosamente e si fratturò un piede. Ci circondarono le guardie. Erano ragazzini, terrorizzati, come noi. Fummo tutti chiusi nuovamente nelle celle e la nostra fu sprangata dall’esterno con una grossa barra di ferro. Il più irrequieto del gruppo decise di appiccare il fuoco a un materasso per costringere le guardie ad aprire. Me lo sentivo che sarebbe andata male. Cercammo di convincerlo a non farlo, ma lui agì di testa sua. Riuscimmo a spegnere l’incendio una volta, ma la seconda il materasso diventò una torcia. Nella stanza c’era una certa corrente d’aria e in pochi minuti tutti i materassi, fatti di materiale sintetico, presero fuoco e poi anche le persone. Eravamo in dodici nella mia cella. Non c’era via di scampo. Le fiamme ci avvolsero completamente, uno per uno. Mi lanciai contro le grate della finestra. Le mani mi rimasero incollate al ferro rovente! Gridavamo aiuto. I due fratellini di quello che aveva appiccato il fuoco morirono abbracciati sotto una branda, carbonizzati, fusi tra loro. I poliziotti urlavano di non avere le chiavi e noi continuavamo a bruciare vivi. Poi vidi la porta che si sbriciolava, attraverso il fumo, e decisi di correre fuori. Non sapevo che c’era una sbarra di ferro a ostruire il passaggio. Caddi per terra colpito all’altezza del petto da quel ferro incandescente. Urlai a tutti di non tirarmi acqua addosso. Dentro la cella c’era ancora fumo e puzza di carne bruciata. Nessuno ci venne a salvare. Io non so che merito ho per essere sopravvissuto e perché gli altri sono morti. In sei sono morti. Alcuni dopo settimane di agonia in ospedale. Non c’erano neanche estintori. Ho gli incubi la notte. Non posso neanche andare al mare, mettere una canottiera, perché le mie ustioni mi ricorderanno sempre quella notte. Oggi ho un lavoro, grazie a Dio posso mantenere la mia famiglia, ho comprato anche un camioncino per fare le consegne e sto bene. Mia figlia non deve vivere come ho vissuto io”.
Quando vi lamentate perchè la mattina siete "troppo stanchi" per alzarvi, pensate a cosa è stato chiesto alla generazione di uomini e donne che ogni giorno lasciano casa per sopravvivere. Sopravvivere, non arricchire.
Ripensai alla mia scelta di far parte del progetto. Era per mezzo nostro che quella storia sarebbe venuta fuori? E che sacrificio avremmo mai potuto invocare noi, che dovevamo solo pensare a come raccontarla?
La gran parte delle persone che intervistammo in seguito, almeno i diretti testimoni, avevano lo sguardo segnato e stuprato dagli eventi. Vuoti dentro. Anche qua fu impossibile evitare il paragone alla strage di Beslan, agli sguardi di vittime e parenti delle vittime. Si crea una vita parallela in cui tutto avviene magnetizzato da una sola direzione, una sola missione. La ricerca della verità e di giustizia diventa l'unica flebo capace di pompare nutrimento nelle loro viscere. Tutto il resto sembra quasi illusione, inutile, fittizio. Il mondo ruota intorno a loro senza più influenzarli. L'unico microcosmo a cui fanno riferimento è la piccola sfera di persone coinvolte come loro negli eventi.
I nostri percorsi si dividono ancora una volta da quelli degli intervistati. Rimangono strette di mano, empatia e qualche amicizia lontana. Tornano al loro microcosmo e noi al nostro, quello fatto delle storie di cui ci nutriamo, aspettando il prossimo appuntamento al bar.
Il film è online in versione integrale: Vulpitta Residence Parte 1.
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